Filòs intrecciando filo | di Simona Gavioli

Filòs intrecciando filo | Ilaria Margutti

di Simona Gavioli

 

“Ricordo un giorno d’estate, un caldo umido, di quelli che si appiccicano addosso. Davanti all’ingresso di una casa di campagna, una signora seduta su una sedia di paglia. Era lì, sembrava in attesa di qualcuno. Mentre aspettava, ricamava. Ricordo l’odore del caffè che usciva dalla porta o forse da una finestra. Un’altra signora usciva con un vassoio e tante tazzine. Ricordo che il profumo del caffè si propagava e viaggiava con il vento (poco in realtà). Ricordo la facciata di mattoni vecchi e l’edera che si arrampicava sulle grondaie. Dietro la campagna, il furmanton[1] che, in Pianura Padana, è considerato più prezioso dell’oro. Ricordo che dopo pochi minuti, arrivarono a piedi e in bicicletta, con sottobraccio una seggiolina pieghevole, molte donne di diverse età. Ricordo che si sedettero tutte lì davanti. Alcune erano amiche da sempre, altre erano “forestiere” che arrivavano da altri paesini e si trovavano lì per sentito dire. Ognuna di loro aveva portato qualcosa con sé che aveva sapientemente tenuto dentro la borsa gigante o nel cestino della bici. A turno, dopo i saluti o le presentazioni, ognuna di loro apriva la seggiolina e tirava fuori dalle borse cose di vario genere; chi il tombolo per ricamare, chi dei fagiolini da pulire, chi uva rossa da lavare per fare il “sugolo”[2], chi semplicemente una sigaretta da fumare dopo il caffè. Ciò che facevano quelle signore era, in gergo locale far filòs. L’espressione Far filòs, probabilmente, deriva dall’abitudine antica di riunirsi nelle stalle durante l’inverno, per trascorrere il tempo insieme a raccontarsi storie e tramandarsi esperienze. Nelle stalle gli uomini intrecciavano ceste mentre le donne tessevano e filavano. La parola Filòs deriva da filare; intrecciare, tessere, ricamare, tirare fili, non solo fisici ma fili che hanno a che fare con il sapere che le donne e gli uomini tramandavano ai giovani, ai loro figli. Far filòs significa tessere una filigrana di incontri tra persone, ed ogni incontro è una prova che esiste e si rinnova nel momento in cui ci si ri-trova, si sta insieme, si costruiscono legami duraturi, si forgiano amicizie”.

 

«Le emozioni disegnano il paesaggio della

nostra vita spirituale e sociale. … Le emozioni

lasciano un segno nelle nostre vite rendendole

irregolari, incerte, imprevedibili»[3].

 

Il lavoro di Ilaria Margutti, artista che vive e lavora a Sansepolcro è un insieme di trame che, a partire dalla pittura, la portano nel 2007 a usare il ricamo come elemento fondamentale della sua ricerca, eleggendolo come linguaggio della sua poetica. Una tecnica pregna di significati simbolici sulle origini del femminile. Ilaria nasce a Modena, in piena Pianura Padana e nonostante nei suoi lavori la ricerca identitaria affondi le proprie radici nella storia greca, l’influenza delle usanze della sua zona di origine, hanno segnato fortemente il suo percorso e hanno sviluppato in lei il desiderio di un’arte che coinvolge, attraverso la pratica del ricamo, l’ausilio della scrittura e la complicità delle persone che nella zona tra il basso mantovano e l’alto modenese ricorda il momento del fare filòs. I lavori di Ilaria sono il frutto del coinvolgimento delle persone, degli abitanti del luogo in cui si trova a operare, degli amici artisti che condividono con lei pensieri, emozioni e momenti innescando un legame speciale che Ilaria traduce con il ricamo. Il suo lavoro, rientrando nell’ambito dell’estetica relazionale, possiede, ammette, “un universo di forme suo proprio, ed opera in seno all’orizzonte pratico e teorico che è la sfera dei rapporti interumani”[4]. “Arte relazionale” quindi, che si nutre di e che produce relazioni e che implica un “principio di esponibilità” e apertura necessaria che le da una connotazione e un ruolo pubblico. Nel progetto HÖ ‘L FÌL DÈ UH (Sul filo di voce) la Margutti si è messa in modalità ascolto e ha registrato le voci delle persone, per poi riportarle sul lenzuolo, si è poi seduta a ricamare dentro un fondo, in una delle vie principali del paese. Nell’ascoltare, parlare con i passanti, ricamare la comunità si scoprono mondi invisibili e pieni di poesia, nella semplicità di gesti e parole il quotidiano diventa un diario, un nodo stretto con l’individuo, un filo tirato sulle emozioni personali e collettive. Ma è con il lavoro, IL CORPO MANCANTE, che il cerchio si chiude o, per rimanere in tema, che troviamo il bandolo della matassa. Il lavoro nasce per dare sostanza al corpo e al contatto fisico venuto a mancare durante la quarantena. In un momento in cui la presenza fisica è proibita, la parola assume nuove valenze e significati che Ilaria cerca di catturare e conservare in componimenti poetici, prima rievocando poesie di Antonella Anedda, poi avvicinandosi in prima persona alla scrittura. Nel suo primo approccio diretto ai versi emerge l’amore per il dialogo intimo e privato, così l’artista si fa guidare dagli amici a lei più vicini, la cui muta presenza è tradita dal ricamo, che le donano e suggeriscono parole, chi singole e già pregne di significato, chi in un intero componimento. E la parola prende forza in Ilaria, che comincia a comporre versi e a ricamarli. Osservando i fili intessuti si riesce a sentire il rumore dell’ago che buca la tela e lento la attraversa, che scandisce i minuti e le ore di quelle giornate in cui prepotentemente tornava l’esigenza di far filòs, di tessere legami e relazioni, di entrare in comunione con l’altro. In questo lavoro più che in altri, il ricamo assume una sua identità concreta, dà corpo e voce a una presenza assente, lontana, ma allo stesso tempo viva e vicina, sostituisce la fisicità della persona evocando la sua essenza più pura.

L’artista, sulla soglia dello stare, ricama la memoria, rende visibile l’invisibile, tocca il ricordo e ricamo dopo ricamo, filo intrecciando filo, tocca la vita e disegna mondi. Mondi non finiti ma continui, tentativi di ricominciare e continuare muovendosi sullo spazio di un tombolo o di un lenzuolo.

Con le storie ricamate, Ilaria fa reimparare a vedere il mondo, installandoci in esso, facendoci attraversare e intrecciando corrispondenze. In quello spazio/tessuto aperto al mondo, emerge il prolungamento del reale, come lo intendeva Merleau-Ponty, il possibile.

 

[1] Granoturco in dialetto mantovano

[2] Il Sugolo è una sorta di budino di origini antichissime della vita contadina che si prepara nel periodo della vendemmia usando il mosto pigiato legato con la farina

[3] M.C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni

[4] Cfr. N. Bourriaud, Estetica relazionale (1998), tr. it. a cura di G. Romano, Post media, Milano 2010, pp. 44-45.

Articolo pubblicato su Dispensa Magazine

Settembre 2020