Trame Mute di Lara Carbonara e Lucrezia Naglieri

Una mano salda. Un ago ostinato, deciso. Un filo che pende giù dalle tele. E le dita ad indicargli i confini da ridisegnare. Tele ricamate, ferite ricucite, frammenti di vita, tessitura di un dolore impenetrabile, Ilaria Margutti sottrae alla storia il tempo, facendo diventare assolute le ferite delle donne da lei ritratte. Un gesto antico, ripetuto, una litania sommessa e silenziosa, tenace e spietata nel suo intento, sensuale  ed evocativa nella sua inquietudine.

Tessere, ricamare, rammendare, cucire sono tutte ‘azioni’ simbolicamente legate  alla ‘creazione’, al generare della vita dall’attesa.

L’ago diviene strumento della ‘creazione’. “L’ago è un medium, un mistero, una realtà, un ermafrodita, un barometro, un momento, e uno zen: non lascia tracce e alla fine scompare. L’unica traccia è la connessione che ha realizzato” (Kim Sooja). È pungente, serve a ferire, come pure a  ricucire, chiudere, rammendare, ricostruire le linee della propria esistenza.

I corpi si contorcono, cieche e ostinate le mani tastano la pelle, ne riconoscono gli orli, ne imprimono i solchi, ne rammendano le pieghe. Donne instancabili compongono e definiscono le loro forme, percorrono cavità e sporgenze, attraversano bocca e ciglia,  ginocchia e ombelichi, seni e unghie.

L’artista non rimargina, ma attraversa le fratture della carne per trasfigurare le sue tele in uno ‘stare presso di sé’, una cicatrice in cui rinchiudersi e avere pace.

Il confine è la pelle. Quella cerniera labile e sottile fra interno ed esterno. Tra dolore e guarigione. L’artista stimola con il ricamo pratiche di contatto, di attraversamento di confini, di scambio; riporta alla memoria le sue ferite, una ad una, ritraendo l’atto del risanamento come momento di purificazione dal dolore.  Mettersi a nudo in un rituale di guarigione, una intimità rivista in una nuova presa di coscienza, una appartenenza alla memoria resa tattile e tangibile in un nuovo contesto di intersezione tra sensibilità individuale e sensibilità collettiva. La pelle. Il suo indumento scarnificato senza fretta da una solitudine troppo rumorosa. La sofferenza si muove con una gestualità solenne e ritmica, quasi sensuale, e  ritaglia il nuovo spazio della sopravvivenza. Il mondo della donna, musa e schiava insieme, immolato nella profanazione del corpo.

E il corpo stesso, abusato dal dolore, diventa stoffa, mostrando trama e ordito della sua identità; la tessitura diventa il momento della conservazione dopo la trasformazione.

Ric-amare diviene un atto d’amore, verso se stessi.

Prendi, srotola, segui la linea che il cotone fa sulla mia pelle, china il capo come fa l’ago, tienimi la mano, stretti i lembi, trattieni l’assenza, distendi le pieghe, ricuci le crepe. Abbi cura di me, cerca la mia pelle lacerata, dimentica le mie ossessioni, possiedi i miei ricordi, strappali dalle mie ginocchia, infila in questa pancia abitata, sfila da questi occhi stanchi, penetra queste carni aperte, infilza questi seni vuoti, pungi queste mani avide… è il corpo o l’anima?

Una mano salda. Un ago ostinato, deciso. Un filo che pende giù dalle tele. E le dita, sempre lì, ad indicargli i confini.